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La prima volta che faccio caso a una foto di un originario di Via Gola con un cappello di Napoli capoluogo partenopeo in testa sono sul profilo Instagram di @paolodopo, postata con la didascalia: “🇮🇹”. Canotta della salute e braccia nude, sorride mentre scrolla con i gomiti appoggiati su una tovaglia casereccia a quadri. Passo molto tempo sul profilo di Paolo perché involontariamente documenta in maniera goliardica un maschile che mi ha sempre divertita. Scorro in basso e a pochi post di distanza di nuovo una foto di Paolo con il cappellino di Napoli, questa volta in un post contenente degli screen di un botta e risposta fotografico su Whatsapp con @ciirovitiiello, che invece da napoletano doc ne sfoggia uno di Milano. Paolo tiene un po’ le redini del panorama hyperpop italiano: gestisce un’etichetta, Grazie1000, che ha in roster dei chiacchieratissimi nomi - @20025XS, @arssalendo - e lo scorso settembre ha contribuito a mettere su un festival, Ecosistemi, che raccoglie i nomi più freschi di questo nuovo pop acceleratissimo. Tra questi anche Ciro Vitiello, soundcloud sensation che avevo scoperto grazie a un artwork che gli aveva realizzato @kenshiro_caravaggio_ carena per un tape incrociato con @talpahh. Un nerdy inside-joke? Goliardia maschile? Una candida riappropriazione del proprio Io adolescenziale? Non ci penso due volte e inoltro il post a Lorenzo Ottone, rampante intercettatore di contro-culture e mio fido confidente, riprendendo una conversazione che avevamo inter- rotto la notte prima. “Lore ne approfitto per chiederti - hai per caso testi/saggi/articoli a cui mi puoi reindirizzare che trattano della paccottiglia turistica che sta vivendo adesso nuova vita come statement props auto-ironici?” La risposta non si fa attendere, “interessante!!”, ma no, nulla di accademico, al di fuori delle nostre testimonianze. Insisto, gli dico che ora che mi fermo a pensarci un attimo non è la prima volta che noto questa cosa, che non sono solo cappellini, ma anche magliette, accendini, paccottiglia varia. Segue una sfilza di primi tentativi di categorizzazione, “Sì certo, è un lo-fi, normcore, post-moderno, ultra-memetico. Ti giro un vocale con mia interpretazione del fenomeno”. Ma la conversazione muore lì.

Passano un paio di mesi, e mentre scorro per la prima volta il materiale prodotto sulla base di queste riflessioni, mi viene in mente che chi ha sicuramente inquadrato il soggetto e che forse poteva averne preso dei proto-appunti sociologici è @santacecilia, che “scrive cose e veste gente”, e che era con me a Napoli per la prima edizione di Ecosistemi. “È un trend che amo - io sono fan di tutto quello che concerne i souvenir. Per dirti, adoro i tabacchi, quelli che offrono souvenir locali, soprattutto quelli geograficamente vicini al mare, perché sono dei luoghi/non luoghi... è un trend che veramente adoro e per dirti, non vedo l’ora di tornare a Napoli per comprarmi una borsetta con scritto ‘I Love Napoli’. Sai quelle rigide in gomma, coi manici?” Non credo sia qualcosa di circoscritto a un contesto lo-fi, e infatti Cecilia mi ricorda la prima volta che avevo intravisto qualcosa in circuiti più ufficiali. “Fra l’altro, non ricordo quale brand di lusso - su due piedi ti direi Balenciaga - aveva fatto tutta una roba legata a questo rebranding dei souvenir paccottiglia... Magari forse sbaglio ed è una cosa che volevo fare io, però mi sembrava fosse Demna. Ecco, secondo me è una di quelle cose che iniziano in chiave ironica, ma che però poi vengono assorbite, interiorizzate, e chiaramente poi fanno tutto il giro e diventano cool. Allo stesso tempo, e questa poi potrebbe essere una parentesi enorme, c’è una sorta di orgoglio nazionale, e magari con questa moda-non moda dei cappellini, del merchandising-souvenir, si ha veramente un’Italia unita. Quello che non ha fatto Garibaldi lo stiamo facendo noi”.

Sorrido, perché è il sentimento “gigante” che volevo rendere visivamente. Prendere un gruppo di “fioi” che sono in giro in skate per Venezia, che si fermano a un baracchino, comprano tutta questa paccottiglia “pezzotta” e vanno a fare la pantomima di quello che, nell’immaginario collettivo, incarna l’archetipo del turista medio, vivendosi questo “sabato gigante” in giro per le località più folcloristche della città. Creano situazioni nelle zone più turistiche di Venezia, ma con il fare goliardico di un adolescente. Scimmiottano gesti e rituali, riappropriandosi di tutta una serie di simulacri, ma pregni di un’estetica visiva che con la cultura skate qualcosa condivide, che a sua volta il concetto di riappropriazione ce l’ha nel DNA.

"Forse non è solo un modo per andare contro la moda mainstream, ma anche contro un certo colonialismo turistico. Anche un ragazzino della provincia di Napoli - e qui non ti faccio questo esempio a caso perché l’avevo notato passeggiando per San Giuseppe Vesuviano la scorsa estate - vede il turista come un estraneo, un ‘socialmente nemico’ che non solo invade, ma che lo fa anche con una certa superiorità. Quindi portare il cappellino è, da una parte, sfottere il turista, ma dall’altra anche un gesto che porta un sentimento forte di rivalsa e che diventa quindi fonte di orgoglio”. Non faccio in tempo a concludere questo scambio sconclusionato di battute con Cecilia che si fa di nuovo vivo Lorenzo. “Com’è andata quella tua [insulto espresso con fare democristiano al mio approccio pressappochista alla questione] dei cappellini alla fine? Fammi sapere, che se riesco ti butto giù qualcosa”.

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Art direction & Photography: Francesca Emilia Minà
Styling Antonio Clavelli
Production Giuditta Cipolla
Models Enrico Boschi, Jacopo Caruso, Lorenzo Castellini, Raffaele Destro, Francesco Don, Alberto Duse, Luca Fabris, Nahom Girmay, Pietro Pinci
Text Francesca Emilia Minà

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